1136. Il 13 gennaio 1136 il conte Berardo Tancredi detto Nontigiova, «essendo debitore nei confronti del monastero di Santa Maria di Montepiano di 24 libbre di moneta lucchese, delle quali 20 “per iudicium quondam Cicilie comitisse” (“per un lascito della sua defunta moglie contessa Cecilia”) impegnò “mansum unum positum in loco Sasseta, et regitur per Bonizum filium quondam Teuzi, Vezzi vocati, et est infra plebem Sancti Ypoliti et Cassiani, territorio Pisstoriensi” (“un manso posto a Sasseta, tenuto da Bonizzo, figlio del fu Teuzo, detto Vezzo, e compreso nella pieve dei Santi Ippolito e Cassiano, in territorio pistoiese”). Se entro cinque anni il conte o i suoi eredi avessero restituito il denaro prestato, la Badia avrebbe annullato il valore del “pignus et cartula”. Sovente non è possibile seguire lo sviluppo di simili vicende, a causa di lacune nella documentazione. In questo caso, invece, lo possiamo fare. Il 18 luglio del 1141, scaduto il termine dei cinque anni, la contessa Orabile, che nel frattempo era divenuta moglie del Nontigiova dopo la morte di Cecilia, cedette al monastero di Montepiano, per il compenso di tre lire lucchesi, il manso (podere) posto a Sasseta che il marito, ora defunto, aveva impegnato. Molto probabilmente i conti non furono in grado di saldare il debito di 24 lire e, scaduto il termine dei cinque anni, il terreno entrò in pieno possesso della Badia, che forse volle gratificare la contessa con l’elargizione di 3 lire» (M. Abatantuono, L. Righetti 2000, pp. 87-88).
1168. In quell'anno Alberto IV degli Alberti «cede “ad possidendum proprietario iure” un uomo alla Badia di Montepiano, un certo “Ugone de la Noce” e assieme ad esso, “omnibus rebus mobilibus et inmobilibus quas ipse habet vel alii per eum que sunt posite in curte de Vernio in loco Cafaio” nei pressi della chiesa di Santa Maria di Vernio» (M. Abatantuono, L. Righetti 2000, p. 91).
1250. In quell' anno in cui il notaio ser Viviano redige un atto “in villa de Sasseta curia Vernii” con il quale Palmiero del fu Pietro di Mangona dona dei beni “inter vivos” al monastero “et pro converso se obtulit” (E. Lucchesi 1941, p. 223).
1262. «Nel 1262 “domines Napuleo, Guilielmus et Alexander fratres comites de Mangone filii domini comitis Albertus… concesserunt in perpetuum Ghottolo converso et sindico monasteri Sancte Marie de Monteplano… integrum videlicet resedium … positus a Cafagio”»(M. Abatantuono, L. Righetti 2000, p. 112)
1276. Nel 1276 alcuni abitanti di Sasseta si rendono protagonisti di un curioso ed interessante caso giudiziario che ci documenta la loro rilevanza politica e stretta vicinanza al potere, in questo caso agli Alberti. «Gli avvenimenti ci sono noti grazie ad una lettera che Tommaso di Ripatransone, vicario del potestà di Bologna Rizzardo di Beauvoir, invia il 24 gennaio del suddetto anno ad Alessandro degli Alberti, allora Capitano delle Montagne di Casio (carica conferitagli dal comune di Bologna per governare con pieni poteri politici, amministrativi e giudiziari il territorio montano da poco acquisito). Alcuni uomini che risiedevano a Sasseta avevano citato in giudizio davanti al conte Alessandro un certo Azzolino che veniva da Gabbiano, centro abitato della curia di Monzuno. Quest’ultimo si rese però conto che questa chiamata in giudizio sarebbe andata a tutto suo svantaggio, poiché il conte Alessandro non avrebbe certamente giudicato in modo spassionato ed imparziale la causa: gli uomini di Sasseta erano infatti suoi “fideles” (ovvero uomini di fiducia, tra i suoi più stretti collaboratori militari che appartenevano al suo clan di potere) e per di più erano “domini”, cioè anch’essi nobili! Così il povero Azzolino ritenendo, a ragione, che il conte-capitano-giudice nell’esercizio del potere avrebbe sicuramente fatto delle parzialità a svantaggio suo ed a vantaggio loro, se ne guardò bene dal presentarsi al bancum iuris, cioè al tribunale, di Casio; in sua vece mandò un procuratore, quello che oggi chiameremmo un avvocato con l’esplicito incarico di avanzare la richiesta di spostamento della causa a Bologna per un caso giuridico, che è divenuto molto famoso presso l’opinione pubblica di oggi: si trattava di legittimo sospetto. La reazione del conte-capitano-giudice fu invece durissima e tale da dimostrare che il sospetto in quel caso era davvero fondato: egli fece infatti imprigionare il malcapitato procuratore e confiscare quanto aveva con sé! Azzolino allora si rivolse al grado superiore della giustizia bolognese, rappresentato da Tommaso da Ripatransone, vicario del potestà di Bologna Rizzardo di Beauvoir, che accolse in pieno la sua istanza di legittimo sospetto ed il 24 gennaio 1276 scrisse al conte Alessandro a Casio, facendogli notare che si era assai meravigliato del suo comportamento e ordinandogli di rilasciare il povero procuratore, evidentemente ancora detenuto, restituendogli i beni confiscati e di rimettere la causa nelle proprie mani» (www.provincia.bologna.it; R. Zagnoni 2008).
1289. Il 23 novembre 1289 i conti Azzolino e Alberto degli Alberti assieme ai consoli della curia di Vernio emanano un decreto che vieta di fare tagli nell'alpe dell'abbazia di Montepiano senza la licenza dell'abate o del fattore. Il decreto è bandito nella piazza di Vernio dal banditore Ciardo di Sasseta (R. Zagnoni 2005).
1692. Risale a quest'anno una contesa sui confini tra abitanti di Montepiano e Sasseta. I Bartolini livellari di un podere a Montepiano chiedono che "possino con tutte le loro pecore e bestie pascolare e stare nell'infraritto luogo della villa di Sasseta, cioè arrivare fino al bosco delle Catere per quanto mettono in giù i Prati delle Catere e per linea retta per salire al Poggio delle Catere alla dirittura, perciò dei medesimi Prati e non più oltre verso quello di Sasseta" (Causa sui confini fra abitanti di Montepiano e di Sasseta. ASP Arch. di Vernio - 1692, in CDSE Val di Bisenzio A.226 da www.provincia.prato.it).
1732. Domenico di Francesco Fazzini di Cavarzano sposa Sabatina Manciulli di Sasseta dai cui fratelli riceve in dote 50 scudi di moneta fiorentina, 6 in contanti e 44 cedendo un bel castagneto a L'Ancisa nella Selva di Mezzana (A. Marchi 2000).
1753. Il 24 novembre Paolo di Domenico Falconi di Sasseta si presenta davanti al Vicario di Vernio per denunciare l'aggressione, apparentemente senza motivo, da parte di Pier Angelo Manciulli, anch'esso di Sasseta. In realtà si viene a scoprire che qualche giorno prima era stato lo stesso Falconi a provocare il Manciulli. Il testo integrale processo è riportato in fondo alla pagina.
1764. Il Castellare, area sul versante settentrionale del poggio di Mezzana a lungo contesa fra pastori di Montepiano e Sasseta, viene riconosciuto come luogo comune di pascolo degli uomini di Sasseta (AA. VV. 1996, p. 151).
1770. Nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio, alcuni giovanotti di Sasseta si rendono protagonisti di una "bravata" rubando un abetino dall'abetaia di Montepiano per piantarlo di fronte alla casa della loro innamorata. Il testo integrale del processo che li porta davanti al vicario di Vernio è riportato in fondo alla pagina.
Paolo di Domenico Falconi, giovane contadino scapolo di Sasseta, il 24 novembre 1753 si rivolge al vicario di Vernio per avere soddisfazione di un torto ricevuto da un altro giovanotto del luogo. Racconta che dieci giorni prima all’Avemaria gli era capitata una brutta avventura:
Teste: ... nel tornarmene che facevo con le bestie vaccine giunto che fui alla Fonte di Guarandaccio veddi... Pier Angelo Manciulli al fosso che si lavava le mani. Io gli dissi: - Pier Angelo che ti lavi -
E lui rispose - Si mi lavo -, e in tal dire prese di terra un pezzo di querciolo lungo circa due braccia, e grosso in circonferenza quanto lungo un testone, e senza fare altre parole mi diede con quello una botta sulla spalla destra.
Solo l’intervento di un passante che si mise a vociare contro l’aggressore aveva scoraggiato quest’ultimo, inducendolo a desistere e a darsi alla fuga. Il racconto fino a qui non chiarisce sufficientemente la meccanica del fatto, rispondere con tanta violenza alle parole del Falconi, nelle quali peraltro è facile cogliere un filo di sarcasmo. Il vicario, che conosce bene il suo mestiere ed è abituato ad ascoltare pazientemente i numerosi popolani che reclamano giustizia, riesce tuttavia a dipanare abilmente questa matassa estorcendo alla fine al querelante una verità meno addomesticata (giacché in prima istanza aveva dichiarato che non c’erano dissapori fra lui e il Manciulli) e certo più credibile, mettendo in luce come la monotonia della vita di paese poteva essere rotta soltanto dalle “celie” dei giovanotti:
Teste: ... solo gli posso dire che sette o otto giorni avanti ci ritrovammo a veglia assieme e con altri giovinotti ancora in casa di Marco Lippini e fra noi tutti si celiava col dire delle celie come suol farsi tra giovanotti. Mi venne detto al quale Manciulli:
- non sai che Domenico Bettini ti ha accusato -
E lui replicò:
- perché -
Io soggiunsi: - perché li sei passato per il grano, che hai le scarpe troppo grande -
Quello conoscendo che era celia lo ebbe a male, e mi disse cose molto offensive, e perfino l’ebbi di porco, ma io me la ridevo, e Marco Lippini perfino lo mandò fuori di casa...
Ecco trovato il motivo della bastonatura, dunque; null’altro che un episodio nell’episodio, il tutto nella logica degli scherni e delle bravate fra giovanotti. Un modo come un altro per passare il tempo.
A.S.P. Arch. di Vernio, Processi e cause diverse, pubblicato da L. Cangioli, A. Marchi 1987
La storia ha inizio con la denuncia della guardia addetta alle abetaie di Montepiano, proprietà diretta dai conti Bardi (Giuseppe Piccini 42 anni, nativo di Val di Marina nello stato di Toscana) che così riferisce al vicario di Vernio:
«Sappia V.S. che il secondo giorno del corrente mese di maggio passò da Montepiano una persona dello Stato Fiorentino che io non la conosco, e disse meco che nel popolo di Sasseta aveva sentito dire che la notte precedente erano stati piantati in detto luogo di Sasseta delle piante di abeto per maggi, già che in questo paese sogliono praticare i giovanotti che vanno a veglia delle ragazze, piantare delle frasche, o alberelli verdi che gli chiamano maggi, la notte di Calende di Maggio d’avanti la casa della loro innamorata... ».
La guardia appare giustamente preoccupata delle conseguenze del fatto poiché ha scoperto che nell’abetaia del Ponte all’Abate, di sua competenza, mancano tre abetini piccoli «di grossezza verso il terreno quanto una gamba d’uomo in circa, e fra le altre uno dei detti tre abeti stati come sopra tagliati, e portati via, era stato troncato in quest’inverno dalla neve, ma non era staccato dal suo piede, sicché si manteneva sempre verde, e quegli altri due poi erano sani e verdi».
Le leggi che imponevano il rispetto delle bandite e il divieto del taglio sull’Appennino suonavano molto rigide, per questo la guardia svolge indagini in proprio mettendo l’autorità giudiziaria della contea al corrente dell’ esito delle sue scrupolose ricerche.
Venti giorno dopo, il 22 maggio, il vicario di Vernio convoca come testimone un tale Paolo Foglianti e ne registra la deposizione.
Teste: Io sono, e mi chiamo Pavolo del fu Diacinto Foglianti, sono in età di anni 54 in circa, sono vedovo, abito nella villa di Sasseta di questa contea di Vernio, e faccio il mestiero del contadino.
Vicario: Se lui indicato sappia o s’immagini la causa del suo presente esame et quale.
Teste: Se V.S. me la dice io non so nulla.
Vicario: Se lui indicato abbia alcune cognizione di un certo Francesco Bettini di Ceraiolo, et quale.
Teste: Signor sì che io conosco questo Francesco Bettini di Ceraiolo che ella mi nomina , con l’occasione che sta nella medesima villa di Sasseta dove sto io, e l’ho sempre conosciuto da poi che è al mondo.
Vicario: Se sappia o sia informato se presso la casa di detto Francesco Bettini da qualche tempo in qua vi sia seguito qualcosa di nuovo, et quale.
Teste: Ma io sig. Vicario non so da che presso la casa di detto Francesco Bettini di Ceraiolo vi siano seguite altre novità, se non che nei primi giorni del corrente mese di maggio, che non mi ricordo ora del giorno preciso passai una mattina di lì di Ceraiolo, che andavo a cercare di due legne, ed ero solo, sicchè in tale occasione veddi che era stato piantato un abetino piccolo d’avanti l’ufizio della casa di detto Francesco Bettini sicchè nel vedere il detto abetino come sopra piantato, dissi dentro di me - Oh il bel maggio che è questo, non vorrei che avesse a costare a qualcheduno.
Nel corso dell’interrogatorio il ricordo sembra mettere a fuoco, con crescente chiarezza, l’episodio e il vicario cerca di acquistare ulteriori informazioni.
Vicario: Se sappia o sia informato da chi fosse piantato il detto abetino d’avanti l’ufizio della casa di Francesco Bettini, et quale.
Teste: Signor no, io non ne so nulla, non avendo sentito dir niente.
Vicario: Se sappia o sia informato se il Francesco Bettini abbia in casa altre persone suoi domestici, et quali.
Teste: Io gli dirò che il detto Francesco Bettini ha in casa la moglie e due figli, la madre e due sorelle fanciulle che una si chiama Maria Giulia l’altra Caterina.
Invano il Vicario chiede al testimone se conosca i nomi dei giovanotti che frequentano la veglia di casa Bettini e che potrebbero essere indiziati come colpevoli del furto dell’abete, così che preferisce dare la comparsa direttamente a Francesco Bettini, contadino in età di 33 anni in circa. Alla domanda rituale se s’immagini per quale motivo è stato chiamato, il Bettini sbotta in una lunga giustificazione che tradisce anche la stizza di essere stato convocato e in qualche modo coinvolto nella bravata dei giovanotti.
Teste: Io mi suppongo che V.S. mi voglia adesso esaminare a motivo di un maggio che mi fu piantato d’avanti l’ufizio di casa mia lì a Ceraiolo la notte delle Calende del presente mese di maggio, ma non posso poi dirle chi ce lo piantasse, perché io in detta notte non ero a casa ma ero in luogo detto nel Castellare distante da casa circa due miglia dove ci ho la capanna col bestiame, onde vi albergo ogni notte per custodire detto mio bestiame, che ce lo soglio condurre nel Castellare per la SS. Annunziata, e fino dopo segatura non lo riconduco a casa, e poi quantunque fossi stato a casa... non potrei dirli nulla perché questi sguaiati che piantano tali maggi alle case nella notte di Calende di Maggio non fanno chiasso, ma gli piantano zitti zitti, sicché la mattina una si leva e si trova il maggio ritto piantato d’avanti casa senza potersi sapere chi lo abbia piantato.
Il senso di fastidio per l’accaduto prevale nettamente sul rispetto per la tradizione e, dopo aver ricordato di aver visto con i suoi occhi l’abete la mattina del primo maggio scendendo dal Castellare per andare alla messa (ma all’alba del 2 tornando ancora in chiesa l’alberello era già stato levato), Francesco Bettini così commenta l’usanza di piantare la frasca:
Teste: ... so che è solito in detta notte di Calende di Maggio, che in questo paese, o più in qua o più in là ogni anno si sente dire che poi mi ricordo, che sia stato piantato qualche maggio consistente in qualche alberello che abbia la foglia verde, pur che sia, ma non ho mai saputo di che cosa sappia questa scioccheria, perché io da miei giorni di maggi non ne ho mai piantati.
È quasi uno sfogo contro gli autori del gesto, dei quali non può giustificare l’operato: nell’albero piantato davanti a casa sua Francesco Bettini scorge un significato quasi offensivo più che un atto di omaggio della tradizione amorosa. Così non cerca di nascondere i nomi dei due giovanotti che,soprattutto nei giorni di Carnevale, erano soliti venire a veglia presso di lui: Biagio di Stefano Corsi di Guarandaccio e Giovacchino di Francesco Micheloni di Celle. Il vicario, abbastanza soddisfatto del corso delle indagini, colleziona a questo punto un testimone d’eccezione.
Teste: Io sono e mi chiamo Pavolo del fu Santi Manciulli, sono in età di anni 40 in circa, ho moglie, e figli, abito nella villa di Sasseta di questa contea di Vernio, e il mio mestiere è di fare le faccende del contadino... sappia V.S. che la notte del dì ultimo di Aprile p.p. si fece una conversazione e si andò a Cantar Maggio io, Giovanni di Bartolomeo Balestri da Ceraio, Biagio, e Francesco fratelli, e figli del fu Stefano Corsi di Guarandaccio, Pavolo di Domenico Corsi pure di Guarandaccio, e Simone di Gerolamo Falconi di Sasseta, e si girò la villa di Sasseta, e di Luciana a Cantar Maggio, e si cantò anche alla casa di Francesco Bettini di Ceraiolo, e quando vi si cantò non vi era niente. Quando si fu girata la villa di Sasseta, e Luciana a Cantar Maggio, e che era quasi vicino a giorno, si rimase d’accordo d’andare a Cantar Maggio la mattina seguente, che era la mattina di calende di Maggio a Monte Piano, e si concertò di ritrovarsi la mattina di buon’ora a casa il nominato Simone di Gerolamo Falconi e ognuno di noi si andò alle nostre case a mutarci i panni, e la mattina ci ritrovammo tutti insieme a casa del d.o. Simone Falconi per andare a Cantar Maggio a Monte Piano, come si fece, e nell’esserci ritrovati tutti insieme a casa del d.o. Falconi, Giovanni di Bartolomeo Balestri, uno della nostra conversazione, disse che nell’essere andato a casa a mutarsi i panni, nel ritornare che fece in qua era passato da casa al nominato Francesco Bettini da Ceraiolo, dove aveva veduto che vi era stato piantato un abete per maggio, e che quelli che ve lo avevano piantato erano tuttavia lì a guardarlo collo schioppo perché non gli fosse portato via, e disse che questi tali che stavano lì a guardare il d.o. abeto piantato erano un tal Vincenzo Pasquinelli, e Giovacchino figlio di Francesco Micheloni di Celle i quali sono giovanotti, e vanno a veglia della Giulia sorella del d.o. Francesco Bettini, e quando il d.o. Balestri disse queste cose non solamente sentii io, ma ancora tutti quelli della nostra conversazione da me nominatili. La medesima mattina poi di Calende di Maggio io passai verso il mezzogiorno da Ceraiolo da casa il d.o. Francesco Bettini, e veddi effettivamente d’avanti all’uscio di casa il d.o. Bettini, il predetto Abeto piantato in terra, quale era un abetello giovane di grossezza quanto un braccio d’uomo in circa, e lungo circa dieci braccia, simile appunto agli abeti dell’Abetaja del Ponte all’Abate del sig. Conte Pier Filippo Padrone che sono tutti novellotti, o vogliono dire abeti giovani, essendo piantata di poco tempo la d.a. Abetaja del Sig. Conte Pier Filippo in congiuntura di andare a Monte Piano; sicché io mi suppongo che il d.o. abeto piantato dai nominati Vincenzo Pasquinelli, e Giovacchino Micheloni d’avanti l’ufizio di casa di Francesco Bettini da Ceraiolo per fare onore alla loro innamorata lo avessero tagliato nella d.a. Abetaja del Ponte all’Abate del Sig. Conte Pier Filippo Padrone; e posso dirli ancora, che mi fu detto, che non mi ricordo da chi, che il d.o. Vincenzo Pasquinelli, e Giovacchino Micheloni nell’essere una sera a veglia dalla d.a. Giulia sorella di Francesco Bettini, poco avanti le Calende di Maggio, le dissero che erano di pensiero di piantarli un poco di frasca, come suolo costumarsi la notte del dì ultimo di Aprile veniente il giorno di Calende di Maggio, che perciò gli domandarono se se ne contentava. Io ho sentito dire ancora pubblicamente a diverse persone che in quella notte di Calende di Maggio ne sieno stati piantati ancora degli abeti per maggio, uno a Costozze, uno a Cavarzano, uno a Mangona, e uno verso Vaiano, ma non so poi a casa di chi sieno stati piantati, e ne meno di dove sieno stati presi i suddetti abeti, solamente ne sentivo discorrere così alla rinfusa pubblicamente...
La testimonianza di Paolo Manciulli è confermata da un altro dei maggiaioli di Sasseta che si erano trovati dopo il giro notturno in casa di Simone Falconi: si aggiungono nuovi particolari del modo con cui si usava cantar maggio (facendo un a bella colazione prima di andare a cantare a Montepiano, la mattina del primo maggio) e dell’identità degli uomini che avevano piantato la frasca. Racconta infatti Giovanni di Bartolomeo Balestri (giovane scapolo di 24 anni) al vicario:
Teste: ... nel passare di casa a Francesco Bettini di Ceraiolo, veddi d’avanti l’ufizio di casa sua un abetello verde piantato in terra che sarà stato lungo circa cinque braccia, e grosso come un braccio d’uomo in circa per quanto mi parve così al barlume perché appunto spuntava la prima alba, e osservai che in distanza dal detto albero circa venti braccia vi erano due uomini a sedere da una capanna che vi è, ed avevano uno schioppo ritto in terra appoggiato alla detta capanna, i quali avevano il cappello spuntato tirato giù negli occhi, onde io mi diedi a supporre che il detto abeto ve lo avessero piantato i detti uomini per maggio, e che fossero lì a guardarlo perché non gli fosse portato via, e questi tali io non conobbi precisamente chi fossero perché come gli ho detto era bujo, e non era ancor giorno, ed avevano il cappello spuntato negli occhi, che mi supposi tenessero il cappello in quella conformità per non essere conosciuti, ma per quanto mi parve di conoscere alla loro statura, e vestimenti mi parvero un tal Giovacchino di Francesco Micheloni, e Vincenzo Pasquinelli di Celle, perché mi parve che fossero vestiti di scuro come sogliono i medesimi Micheloni e Pasquinelli, e tanto più io mi supposi che fossero costoro perché il d.o. Giovacchino Micheloni va a veglia dalla Giulia sorella del d.o. Francesco Bettini, ed in sua compagnia ci va talvolta anche il d.o. Vincenzo Pasquinelli, sicché mi supposi che per fare onore alla predetta Giulia fossero stati loro che gli avessero piantato il d.o. abeto per maggio, già che è solito dire che i giovanotti che vanno a veglia dalle ragazze in tal notte del dì 30 Aprile, alcuni piantano qualche frasca verde d’avanti la casa delle loro ragazze per farli onore, ma come gli ho detto non lo posso asserire costantemente se quei tali fossero i predetti Giovacchino Micheloni, e Vincenzo Pasquinelli, perché come gli ho detto non era ancor giorno, ed avevano il cappello spuntato negli occhi. Solamente mi parvero loro, ma potrei anche avere preso sbaglio perché essi non parlorno, né io dissi nulla a loro, né me gli accostai più che una ventina di braccia in circa per timore di non entrare con essi in qualche impegno già che veddi che non si curavano di esser conosciuti, dal cappello che tenevano spuntato negli occhi, sicché io me ne passai per il mio viaggio, e ritornai a casa del d.o. Simone Falconi dove vi ritrovai i nominati miei compagni che mi aspettavano, ai quali raccontai un tal fatto, e di lì si andò a Monte Piano a Cantar Maggio...
La voce popolare dovette contribuire non poco al dilatarsi dell’eco su questo ed altri episodi che nella val di Bisenzio si richiamavano alla tradizione del maggio. Comunque, la conclusione del processo per il fatto di Sasseta dimostra che non era facile scoprirne gli autori e soprattutto provare la loro responsabilità, anche se la guardia Giuseppe Piccini ce la mise davvero tutta, intervenendo ancora con una nuova testimonianza su notizie ricavate da un «amico segreto». La dinamica dell’episodio ci mostra il Vicario alle prese con un giovanotto di Sasseta, Pier Rinaldo Lippini, che avrebbe ricevuto la confidenza compromettente di quel Giovacchino di Francesco Micheloni che alla fine sembra restare unico vero indiziato del dibattimento. L’interrogato denota una certa reticenza e le sue ammissioni sull’episodio si riferiscono solo a quanto ha sentito dalla voce pubblica, sottolineando comunque che la frasca verde piantata la notte di Calende di Maggio è una pratica ordinaria dei giovanotti che vanno a veglia; Altro non è disposto a dichiarare, nonostante le insistenze del vicario che lo avverte di dire schiettamente il vero:
Teste: Sig. Vicario chi ha detto queste cose ha detto delle bugie perché Giovacchino Micheloni a me non mi ha discorso di queste cose, e perciò non le posso dire, perché lui mi ha avvertito di dire la verità, e se dicessi diversamente da quello che dico, direi delle bugie, onde non voglio aggravare l’anima mia per nessuno. Me lo faccia venire a faccia chi dice queste cose, che non sono né nate, né poste.
Vicario: Mons. nuovamente a dir meglio la verità è minacciato.
Teste: Sig. Vicario se ella non vuole obbligarmi a dire una bugia, non posso dire queste cose, e quantunque mi facesse anche marcire in segreto dirò sempre l’istesso perché non voglio aggravare l’anima mia per nessuno, e se Giovacchino Micheloni mi avesse fatto questi discorsi che ella dice, io ancora lo direi senza alcun riguardo, perché non m’importa un fischio de’ fatti suoi...
Resta invece a noi qualche dubbio: Pier Rinaldo Lippini nella sua testimonianza aveva rivelato chiaramente i suoi sentimenti, in fondo egli non trovava nulla di riprovevole nell’usanza tradizionale ed era anche portato a giustificare l’operato di un giovanotto come lui, spesso compagno di baldoria, mostrando invece qualche segno di insofferenza per il vicario che sottilizzava nella sua indagine e che alla fine rimase letteralmente con un pugno di mosche in mano, dopo fiumi di inchiostro versati invano nel dibattimento.
A.S.P. Archivio di Vernio, Suppliche ai Conti Bardi 1760 - 1772, pubblicato da L. Cangioli, A. Marchi 1987